Il pane a Castelluccio
Geograficamente il feudo di Castelluccio non rientra oggi nei limiti imposti dai confini burocratici della provincia di Ragusa. No, infatti siamo già sotto la giurisdizione di Siracusa ma il territorio, le storie, i racconti non conoscono limiti così netti e non si accordano con le questioni burocratiche: Castelluccio fa ancora parte della Contea di Modica. Così sentiero dopo sentiero, sulle curve dei monti Iblei che si rincorrono, muro a secco dopo trazzera si giunge ad un luogo che del tempo si fa beffa e in un certo senso ne diventa custode battendolo a proprio modo. Una delle magie di quel luogo è che addentrandovisi si perde il contatto con la così detta civiltà del rumore. A cominciare dal trillo dei cellulari che non si può sentire complice la mancanza di campo. L’ultima auto incrociata l’abbiamo lasciata circa venti minuti prima che correva dietro al suo impegno e poi nulla. Nei campi fitti di mandorli, peri, albicocchi, nespoli i fiori degli alberi proteggono buoi e pecore indifferenti alle nubi che promettono pioggia, poi il sole fa capolino e tra una pioggerellina e un filo di luce si indovina il casolare che ci attende. Una cucciolata di cagnolini, già a guardia del giardino accoglie la nostra entrata poi un dolce caffè, ristoro di abitudini cittadine. Le amiche non sono ancora arrivate, Patrizia è preoccupata: le zie non sono mai in ritardo. Però il giardino è un invito a non affrettarsi e la meridiana sul muro del caseggiato confonde le idee. Le rose della padrona di casa imperano, promettono nei loro boccioli i colori dell’arcobaleno. D’un tratto si sente la chiusura di una portiera e poi sfilano ad una ad una tre donne. Una imbraccia la maiḍḍa, una regge la briula e una porta u briuni. Si dirigono all’interno della casa padronale, attraversano il patio col pozzo al centro che si dichiara supervisore e custode con la sua bocca dalla quale chiama “u ristinu”. Poi scompaiono dietro ad una porticina. Le osservo ma ancora non ho un giudizio. Sembravano finte.
La porta socchiusa lascia indovinare uno spazio ampio poi il sorriso gentile di Patrizia, la mia ospite, mi guida. Entriamo nella macchina del tempo e il tempo ci colloca in un’altra atmosfera. Forse gli anni immediatamente dopo la guerra quando le tre anziane sorelle recuperano i ricordi della madre all’opera. Le vedi nei loro movimenti decisi: Lucia, la più giovane indossa un fazzoletto in testa e, annodato il grembiule, si dedica da subito alle pratiche della pulizia già pulito per altro, del posto. Spazza davanti al forno, sistema le frasche, pulisce a maiḍḍa, sistema il fazzoletto alla sorella più grande, Cuncittina che osserva le pratiche per il posizionamento del contenitore sulla panca e poi Gina, la mezzana, con i suoi occhi di trasparenze che osservano all’ombra di un sorriso quasi ritrovato lì per caso, come se lo avesse dimenticato qualche tempo prima. Delicatamente, da quella stanza, quasi in punta di piedi entrano ed escono gli uomini. Mariti, nipote e convenuto. Ma in quel posto parlano appena, si muovono come invitati dalle tre donne. Solo uno di loro recupera un posto che deve essere stato il suo in gioventù ma questo accadrà più tardi. Gina versa la farina nel setaccio e Cuncittina la sistema a piramide mentre Lucia, dopo aver lavato il contenitore dell’acqua lo riempie con l’acqua messa a scaldare pochi minuti prima in una pentola che aveva sciacquato, aggiunge il sale. Così inizia la pratica dell’impasto. Le mani di Cuncittina affondano decise sotto lo sguardo attento di Gina che seguita ad aggiungere acqua poi “u cruscenti”. Impastano e controllano, impastano e aggiungono acqua, impastano e si incoraggiano: tra poco passiamo alla briula. Infatti di li a poco l’impasto verrà messo sulla briula che prende il posto della maiḍḍa sulla panca. Lucia netta la maiḍḍa dai resti dell’impasto e spazza per terra con colpi di ramazza leggeri, delicati, a raccogliere i resti per non alzare polvere. Poi asciuga la pentola per l’acqua e la ripone, così fa anche per la brocca usata per versare l’acqua.
Dall’altra parte della stanza inizia il rito della lavorazione dell’impasto. Da un lato Cuncittina a cavallo della briula ruota l’impasto, con la mano destra tira un grosso lembo di pasta e lo appoggia al cuore dell’impasto che finisce sotto ai colpi del briuni azionato dall’uomo più anziano, il marito, con la sua coppola sempre in testa apparso in quel ruolo all’improvviso. I due sembrano avvolti in una danza dal ritmo intimo di una coppia rodata. Uno abbassa, l’altra riaccoglie l’impasto, uno alza, l’altra ruota; per un tempo imprecisato: “Ancilu passa a razzia ci lassa, Ancilu passau a razzia ci lassau”. Poi ancora su e giù, u briuni affonda nell’impasto con un ritmo scandito da un tempo tutto loro e poi di nuovo: “Ancilu passa a razzia ci lassa, Ancilu passau a razzia ci lassau”. A volte Cuncittina tuona: quasi ci siamo. Altre volte i due scoppiano a ridere ma non ne capisco il perché. Da un angolo della stanza mi accorgo che Lucia sistema le frasche nel forno, una vampa le avvolge. La risata dei due intenti all’impasto attira ancora la mia attenzione: “no questa non la posso dire!” Confessa Cuncittina ma, Gina, con la quale ho subito instaurato una relazione alla pari, si avvicina e mi sussurra all’orecchio: “a za Cicca si cuccau, u zu Ciccu c’accravaccau, menza canna ci anfilau”. È una miniminagghia: metafora della pratica dell’impasto! Certo lo sapevo che le donne, specialmente in tempo di carnevale, e mai sotto quaresima, si divertivano a raccontare indovinelli e a spingersi, dietro metafore, in rappresentazioni osé, rido anch’io.
Ma era ed è un mondo di donne a cui solo in alcuni momenti dell’anno era concesso scherzare protette dai doppi sensi. Adesso mi rinveniva anche l’altra miniminagghia che le tre sorelle si erano dette mentre una versava la farina e le atre due tenevano il setaccio grande: “quaṭṭṛu tienu e unu caca”. Poi d’un tratto le tre donne si scambiano un’occhiata, Cuncittina affonda il coltello e lascia un’orma di croce sull’impasto, poi si segna e si bacia la mano, così fanno le altre due. “Paṭṛi, Figghiu e Spiritu Santu pozza crisciri n’auṭṛu tantu”. Tutte e tre, coltello alla mano, tagliano, ricompongono e impastano in tre movimenti decisi il pezzo di pasta, lo spaccano in mezzo e lo ricuciono dando alla pasta la forma del pane: con le punte, dritto, ricamato, a cuḍḍureḍḍa. Ciascuna il suo, chi con la mano, chi con il coltello, e lo sistemano tra le coperte, u liettu, che poco prima Lucia aveva preparato con estrema cura sul tavolo. Pochi minuti e tutto l’impasto diventa pane. Dieci chili di farina in pochi minuti diventa un letto di pani, tutti della stessa grandezza come se le tre sorelle avessero un peso negli occhi e nelle mani. L’ultimo pezzo di pane è riposto con cura tra i pani che verranno infornati: è il lievito madre, a lievitina, u cruscenti, u maritu ro pani, u m’prena pani, a vera maṭṛi. È un pezzo di pasta abbastanza grande, mi chiedo: perché così grande? “ciù ruossu si lausa u cruscenti, ciù ṛicchi si lassunu i figghi”.
Intanto il marito di Cuncittina si prende cura del forno: u iardi! Arroventata la parete destra, sposta la catasta infuocata delle frasche a sinistra perché adesso imbianchi quella parte del forno e poi al centro, ma di continuo con “u tira luci” raschia il suolo del forno perché anche quello deve essere caldissimo: “sfaiḍḍau” esclama. È il momento di infornare. Quello tra il forno e la lievitazione è un muto dialogo fatto di un tempo non scritto e di un grado di calura non detto. Ancora una volta è l’esperienza che detta le sue regole. “E se è troppo caldo? Ci abbiamu u sali ca canigghia ca si mancia la mamma cu la figghia”. Intanto nella stanza Gina si raccomanda: “Santa Ṛusalia comu chiḍḍu i sabbuṭṛia”, “Santu Ṛamunnu fallu veniri bellu tunnu” risponde Cuncittina, Lucia sistema con cura le forme di pane, pulisce il piano della briula, accarezza con una pezzuola u briuni e poi spazza sotto la panca a raccogliere i resti: “Sant’Antuninu fallu veniri biancu e finu” la sento per caso nel suo sussurro mentre riordina . È una presenza rara la sua per la sua discrezione. Ascolta, sorride, rifinisce il lavoro, contraltare all’esuberanza di Gina ne ammorbidisce col suo silenzio, i contorni chiassosi. Osserva Cuncittina la più grande delle tre con l’occhio amorevole di chi sa che forse la rivedrà a Pasqua.
Loro vivono lontane, ritrovarsi è una festa. “Sant’Antonio fannillu veniri buonu, Santa Ṛita bianca e ṛussa la muḍḍica comu a chiḍḍa ri la zita” si augura Gina, Cuncittina annuisce il suo assenso. Poi aspettiamo tutti insieme che il pane sia lievitato. Di tanto in tanto Cuncittina batte con la palma della mano sul dorso del pane: nun tona! Bisogna a spettare. E chiacchieriamo. È il tempo dei ricordi, quello dei racconti degli zitagghi di ciascuna delle tre sorelle. Difficile, guardandole, credere che un tempo hanno avuto quindici, sedici, anni e che sono state innamorate. “Tona!”, irrompe Cuncittina. Così si controlla il tetto del forno ormai bianco a tutto tondo, con la ramazza intrisa d’acqua si pulisce il fondo del forno e mentre Gina pone i pani sulla pala di ferro Cuncittina inforna, Lucia passa le forme più lontane e intanto raccoglie le coperte dal letto, le piega, le sistema in un angolo della stanza, poi raccoglie il telo candido che aveva baciato i pani e passa una pezza sul tavolo già pulitissimo. “Paṭṛi, Figghiu e Spiritu Santu pozza crisciri n’auṭṛu tantu. San Cristofuru ra vignazza ci mintia u peri cu l’ancazza, Santa Ṛusalia comu chiḍḍu i sabbuṭṛia, Santu Ṛamunnu fallu veniri bellu tunnu, Sant’Antuninu fallu veniri biancu e finu, e se nun è buonu nun fa nenti: su peni ri pani, e puoi nun è maritu c’aṛṛrresta”. Al marito di Cuncittina l’ultimo atto: pone il coperchio di ferro davanti alla bocca del forno. Gina segna una croce: “Sant’Anuratu, né gnaimu né passatu, crisci pani nta stu furnu comu Ḍiu crisciu lu munnu, cuoci pani ca a paṭṛuna avi fami”. Tutti aspettiamo lo spettacolo del pane caldo: a razzia ri Ḍiu .
Marcella Burderi