Maria ca passa ri na strata nova
“Maria ca passa ri na strata nova, la porta ri n-firraru aperta era; ci rissi: “a tia firraru chi fai apiertu a st’ura?”. “Fazzu na cruci a tri puncienti ciova”. “Ti pregu firraru ri nun la fari ora ri nova ti la pagu la mastria”. Questi versi mi sono stati raccontati uguali da molte voci della provincia di Ragusa durante la raccolta di alcune testimonianze che riguardavano la vita lavorativa nelle cittadine iblee e nelle campagne della nostra provincia all’inizio del secolo scorso. La Madre di Dio avendo il presagio della triste fine destinata al figlio cerca in ogni modo di impedire che il destino si compia.
Ma perché una comunità al lavoro a giugno durante il raccolto racconta storie legate alla Passione di Cristo? “E la Maronna si misi an caminu, etta na uci e s’ammantinni, vitti a sa figghiu a la cruci ca penni” A raccontare è il signor Caruso. Il suo ricordo è legato alla gioventù per lo più passata a lavorare nei campi. Un lavoro duro, stancante, fisicamente massacrante. Un lavoro che iniziava all’alba col primo sole e terminava al tramonto con l’ultimo raggio di luce. Il riposo, quando arrivava, era sulla paglia “ammienzu e succi o ammienzu e scravagghi” mi confessa il signor Alecci. Lui, fiero nel raccontarmi il suo ricordo di quando era ragazzo, mi dice che da giovane era sempre stato jarzuni lasciandomi intendere così una vita di lavoro senza soluzione di continuità. Ma la fierezza che traspare dal ricordo risiede nella convinzione che poi mi dichiara “u travagghiu n’ha fattu mai mali a nuddu”( il lavoro non ha mai fatto male a nessuno). E lui di lavoro ne ha fatto di ogni genere perché u jarzuni per il massaro era una copertura totale. Questo significa che lavorava tutto il giorno coprendo ogni tipo di lavoro da quelli più delicati (perché il massaro di lui si fidava) a quello più umile, (giusto perché non mangiasse a tradimento).
Tra questi uomini di fatica anche il signor Caruso. Di lui colpisce in primo luogo il portamento. Il passo è deciso ma delicato. Le spalle dritte. La magrezza è in lui non sinonimo di fragilità ma svela un costrutto muscoloso basato sulla forza di un tempo che però non è sbiadita è solo celata dalla sua età. Quale età? Indecifrabile. Nelle mani e nel volto i solchi di aratri di tanti “San Giuvanni”. Lui era “u capurali”. A lui era delegato l’intero sistema lavorativo del raccolto. Dalla scelta della ciurma al momento in cui fare “San Giuvanni”. San Giuvanni era un rito preciso che si ripeteva alla fine della giornata di lavoro, un vero rito liberatorio e propiziatorio ma che contribuiva a rinsaldare rapporti e a creare compattezza nel gruppo che si riconosceva in uno sfogo corale. Le falci in aria e un grido compatto: “ Evvviva san Giuvaaaaanniiiiii” così tutti insieme si dichiarava il sospirato riposo.“San Giuvanni era una festa” mi dice con un gran sorriso la signora Fiore, ospite gentile e generosa di biscotti e proverbi che elargisce in continuazione tirandoli fuori da cassetti che apre decisa a farmeli assaggiare tutti. Di straforo, mi sussurra anche qualche miniminagghia. “Ma no ora: a Pasqua nun si ni riciunu!” poi se ne ricorda ancora una e le scappa da ridere. Io non riesco ad indovinare e me la svela raccomandandomi di non scriverla “si riciunu a Cannaluvari!”.
Il signor Caruso, a capotavola, fa finta di non sentire, come se riprendesse il ruolo di supervisore di una ciurma indisciplinata, anche lui concorda: “a Pasqua si fa pinitenzia, si mancia na vota o jornu”. E prosegue nel racconto. Scorgo una indecisione. Mi pare non ricordi. Capisco, deve essere passato tanto di quel tempo. Poi prende un fazzoletto, abbassa gli occhi. E torna quella precisa sensazione già provata altre volte durante la raccolta di tante altre testimonianze. A commuovere il signor Caruso non è tanto il ricordo di un tempo passato ma la figura della Madonna. Maria è più di una donna. È più di una madre. Diventa per tutti “la” madre alla quale rivolgersi intimamente con dichiarata devozione filiale.
C’è nel rapporto con Maria un ricordo di figli a cui l’educazione di un tempo ha negato affetto e abbracci materni e la Madonna per tutti gli uomini intervistati prende quel posto di madre a cui per educazione e per ruolo è stato negata l’espressione del sentimento. Si asciuga gli occhi il signor Caruso e continua con voce rotta ma decisa nel tono: “ora ci criru ca ma figghiu è muortu, ri niuru m’ha mannatu lu cummuogghiu, vardati lu venniri a ma figghiu ca l’acqua ri lu mari si fa uogghiu”. Il racconto descrive quel passo della Madonna Vasa vasa che a Modica percorre le strade del centro vestita del suo manto nero.
Comprendo a mano a mano che il racconto prosegue che il legame tra il raccolto a giugno e la Pasqua è strettissimo. Tornano le parole della Signora Maria Bonomo incontrata nelle campagne di Scicli limitrofe a Modica, lei era “a ‘gnura”. Era la moglie del massaro, solo lei portava il vino e l’acqua alla ciurma e quando arrivava lei il caporale fermava il lavoro per pochi minuti. Lei mi racconta che durante il raccolto il marito seguiva il lavoro della ciurma dando loro il ritmo del taglio e della raccolta con l’ausilio della Recita del Rosario a cui la ciurma rispondeva in coro. Questo accadeva perché i lavoranti non si distraessero e perché non parlassero d’altro. Creava in oltre un’atmosfera di sacralità che dava al lavoro dignità massima. Ma il momento più delicato della recita era “a passa o Signuri” quando cioè anche il caporale raccontava cunti legati alla Passione. In quel momento era impossibile fermare il lavoro anche solo per bere. Poi alla fine del raccolto “u capurali” con la falce in aria gridava “viva San Giuvaaaanniiiii”!
Marcella Burderi