La casa di Zudda

Il cartello che annuncia la vanella che conduce alla casa, dichiara laconico un numero. Chissà, forse a vantaggio di un postino che non è del luogo. Ma il posto ha un nome antico: Puozzu rinari. Tradisce, quell’indicazione, il senso più intimo che coniuga il nome di un luogo alla sua speranza recondita. Un misto di sogno, aspettativa, e cambiamento.

Puozzu rinari è soprattutto una truvatura. Chi, ogni cento anni, si trova a passare da li, intorno a mezzanotte, scorgerà un mercato. Bisogna fermarsi e superare alcuni ostacoli. Il primo è averci un’età tale da poter sperare nel trovare il tesoro, dal momento che c’è chi giura di aver visto il mercato fantasma qualche decennio fa. Il secondo ostacolo consiste nel superare il senso di meraviglia e stupore nel trovare un mercato in piena regola nel cuore della notte. Poi acquistare. La storia non indica con quali denari. Insomma chi acquista una bestia poi può acquistarle tutte: puozzu ri ricchizzi! La vera ricchezza però è altrove.

Addentrati nella vanella, ci si lascia alle spalle, appena poche centinaia di metri dal centro abitato, la civiltà del rumore, auto, camion, caffè del bar. E lentamente, in uno stretto passaggio delimitato a destra e manca da muri bassi, tronchi di ulivo, timpe assolate e carrubi, si scivola a ritroso in un mondo che sembra remoto, ma che avrà un secolo sì e no. Piccole case, non una dopo l’altra, ma quasi una a bada dell’altra, indicano una civiltà antica e operosa. Tutto ha un senso: il pozzo per l’acqua, il rosmarino, la salvia, l’alloro, le galline, la grondaia in latta, l’altalena per i bambini. Gli scalini di pietra che fuoriescono dal muro concedono una facile salita per poi passare al di la del muro a secco. E mangiatoie, uccula per gli animali, l’uva che penderà a settembre. Mandorli, melagrani e u bàlucu: il fiore violaciocca. Poi le grate di ferro a protezione di finestre già piccolissime. Eh già! Questo è luogo di briganti che, come si evince da sentenze penali custodite all’archivio di Stato di Ragusa risalenti al decennio 1878- 1888, rubavano la povertà altrui. Due ricotte, un cappotto, un paio di scarpe, quindici galline.

Da lontano si sente il motore di un trattore, è il periodo della semina: se vuoi favi carricanti ha seminari a San Martino e tutti i Santi. Non vale per tutti però se è vero quel che dice Peppino Caruso, classe 1923, “Mio padre non seminava mai prima ra Maronna o pirìculu, il 21 novembre”.

Mi aspetta in fondo alla vanella Zudda. È una donna la cui età, è, come spesso accade da queste parti, indecifrabile. Nella postura, la fatica di una vita. La porta spalancata sull’acciottolato lascia al sole di dicembre lo spazio del calore. A maìdda, a brìula, u briùni, sono già riposti, u pani è o liettu, una catasta di legna già teme il suo prossimo destino. Zudda è pronta per i dolci del Natale. Quelli che lei faceva da ragazza, quando abitava davvero lontana da qui, dall’altopiano ibleo.

Zudda infatti fino a vent’anni ha vissuto a ridosso del mare in contrada Samuele, a Scicli, oggi stravolta da villaggi turistici e alberghi in costruzione. “Quando mi sposai la mia famiglia dopo la cerimonia non venne ad accompagnarmi perché non si potevano permettere un’automobile in affitto. Così subito venni qui”. Cambiò luogo geografico, Zudda, ma non abitudini “Accuminzava comu agghiurnava e finìa ri travagghiari comu scurava, di stiddi a stiddi. In estate andavo a lavare alla cisterna comune, cinque viaggi facevo per portare la vasca, i panni, la pentola per la liscìa, e la bambina piccola. Zudda è sull’uscio, il suo sorriso schietto e sincero come sempre mi accoglie: a pasta è affriùta!”.

Mi rimprovera il ritardo dolcemente. Sullo scanaturi ha pronto un pò di pasta, la lavora, ancora e poi lo segna con una croce: è un cruscenti. “Te ne ho messo un pò di lato”, regalare u cruscenti è un atto di grande gentilezza, è segno di buon augurio. Un altro pezzo di pasta diventa un lungo cannotto, su un lato impone dei tagli fitti e brevi con la lama di un coltello, poi gira il pezzo di pasta e lo incide al contrario questa volta con tagli profondi ma a distanza l’uno dall’altro di un paio di centimetri. In quello spazio collocherà in seguito le mandorle. Infine inanella la pasta e decora il tutto con un rotolino di pasta.

Poi conclude con le mandorle. “Pi Natali ni facìunu u rialu. Era u cucciddatu chè miènnili”. U cucciddatu era anche il dono che la nuora faceva alla suocera il primo anno e questa ricambiava la cortesia con del denaro. “Iu facìa u prisepi ca sparacogna, u cuttuni e ci mintìa u cucciddatu, aranci e mannarini”. Zudda parla e impasta, poi scompare dietro un angolo e riappare con una pentola: “ho già sciolto il miele di satra, ora fazzu i mustazzola alla maniera scichilitana”. Poi esplode: “o uòttu a Mmaculata, o trìrici Santa Lucia, o vinticincu u veru Missìa”.

Impasta Zudda, miele e farina. Da parte ha già pronto il ripieno: miele, mandorle, cannella, scorza di limone e arancia. Impasta Zudda e riflette a denti stretti: “Se mi vienu ruri, tutti i peni l’àgghiu iu!”. Quello della preoccupazione della cuoca per la buona riuscita delle pietanze è uno stato d’animo che ricorre spesso. Tranne per il pane. Dopo averlo raccomandato a tutti i santi si finisce con l’esclamare: “Se nun è buonu nun fa nenti: sù peni ri pani e puòi nun n’è maritu ca resta”.

Evidentemente lo stesso non vale per quelle pietanze che si preparano una volta l’anno come queste a Natale. Ad impasto ultimato Zudda prepara lunghi cannoli di pasta poi li riduce  in pezzi lunghi mezzo dito, li sistema in una teglia incidendoli al centro con il taglio della mano. “Io non li faccio uguali: niàutri cristiani nun siemu tutti ri na misura”! Lentamente, col suo passo dondolante, guadagna il suo posto davanti alla bocca dell’antico forno. In pochi gesti arde una pila di frasche. Poi, seguendo gestualità ritrovate finisce di preparare il forno e il pane in una buona mezz’ora cuoce. I mustazzola entrano ed escono dal forno in pochi minuti. Condiamo il pane, e, ancora caldo, lo mangiamo tra i ricordi, ciascuno i suoi. Dietro la vetrata la vallata custodisce i pensieri, un gallo annuncia u filinòna.

Marcella Burderi